Riders, una storia lunga dieci anni

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Dopo dieci anni dalla fondazione di Riders, Ungaro passa il testimone a Moreno Pisto. Nel primo editoriale del nuovo direttore, la storia della rivista

Il nuovo direttore, Moreno Pisto, è pronto ad assumere la guida di Riders. Dopo dieci anni dalla fondazione della rivista (dieci anni di leadership by Roberto Ungaro), Riders è una certezza editoriale. Riferimento di tanti appassionati, il giornale si prepara a trasformarsi per rispecchiare ancora di più la passione per le moto. Ecco il primo editoriale del nuovo numero uno.

I – Come tutto è iniziato

La storia è questa. Lavoravo a Style del Corriere della Sera da appena 8 mesi; mi vestivo in camicia e giacchetta, ero sovrappeso e avevo 26 anni e i capelli rasati. Mi chiama Davide Burchiellaro, allora caporedattore di marie claire, femminile edito da Hachette Rusconi. Qui stanno studiando un nuovo giornale, un maschile che ha a che fare con le moto. Mi hanno chiesto di consigliare qualcuno e ho fatto il tuo nome. Ok, grazie. Tempo qualche ora e squilla il mio Nokia.

Pronto?

Ciao, sono Roberto Ungaro.

Quel nome non mi diceva niente. Io non avevo mai guidato una moto prima di allora, al massimo seguivo le gare di MotoGP. Però il nome di quel giornale che stava per nascere mi arrapava: Riders. Una cosa che si chiama così ha il destino segnato, ho pensato subito.

II – Il colloquio

Giornalisticamente sono nato in una redazione di provincia a fare cronaca nera, cronaca politica, notizie brevi e inchieste sociali, con un caporedattore che tra una sigaretta e l’altra ripeteva spesso una frase, questa: se i giornalisti dovessero scrivere solo di ciò che sanno i giornali chiuderebbero tutti.

In quel periodo, poi, in Italia stava avendo un gran successo un settimanale che non si capiva ancora bene cosa fosse, un femminile, un familiare o cosa non si sa, Vanity Fair. Il suo direttore arrivava dal Corriere della Sera. In un’intervista aveva dichiarato: prima di arrivare a Vanity non sapevo niente di moda, ho dovuto studiare per capirla.

Nelle cose che ami fare funziona così: se non sai una cosa ti applichi e la impari.  Quindi quando mi è stato proposto un colloquio per un maschile di moto ho risposto: ok, arrivo.

L’incontro con Roberto Ungaro

Hachette Rusconi aveva sede in un palazzone di Milano, periferia nord, roba da rischiare la vita ogni giorno solo per attraversare la strada. Primo piano. Stanzone open space con moquette. La prima faccia che vedo è quella di una bionda. Sorride. Mi saluta. Si presenta: Stefania Freri. In redazione c’è altra gente. È caldo.

Un uomo con ciuffo e camminata da bullo mi viene incontro: eccolo, è Roberto. Mi stringe la mano, mi fa strada nel suo ufficio, intorno a un tavolo ovale mi racconta chi è, da dove arriva, cosa vuole fare. Riders è un cantiere. Ci capiamo in tempo zero. Stessa adrenalina, stessa energia. Stessa voglia di vincere le sfide. Esco da quel colloquio con la consapevolezza che in quel giornale ci lavorerò. Era maggio 2007. Dieci anni fa.

III – Il numero zero

Il numero zero di Riders era già pronto. L’idea era venuta a un dirigente di Hachette, Egidio Mauri, anche lui non c’entrava niente con le moto. Però aveva fiuto giornalistico. Aveva capito che il futuro dei magazine passava da una parola: passione. Riders, appunto. Moda. Storie. Reportage. Interviste. Viaggi. Tutto filtrato da una cosa: la passione per la moto.

Solo che quel numero zero che avevo sfogliato nel colloquio era stato fatto da qualcuno che di quella passione ne viveva solo il lato estetico; non quello emozionale, di pancia. Per questo la casa editrice aveva pensato di chiamare un motociclista puro alla guida. Per questo la scelta era ricaduta su Roberto.

Lo chiamavano Hollywood perché stava attento al risvolto del jeans o all’abbinamento casco/moto nelle prove; però nel suo ufficio sfoggiava una foto dove impennava una Harley da 300 chili. Insomma, era (è) uno che sapeva farci con lo stile e con la manetta.

Quel giorno mi offrì di creare Riders insieme a lui e a un gruppo di professionisti spaventosi. Lui arrivava dall’ambito motociclistico, il vicedirettore pure (Maurizio Gissi, da TuttoMoto, vi ricordate?), aveva bisogno di gente che sapesse trattare il lifestyle. Un mese dopo ero dentro, in redazione.

IV – Coraggio

Ora: la casa editrice di Riders era appena uscita da una crisi che ne aveva minato la reputazione; io lavoravo in un giornale di proprietà del colosso RCS, sicuro e affidabile. Quando comunicai il passaggio da un editore all’altro molti mi dissero che ero un matto, che me ne sarei pentito, che stavo andando in un giornale che non sarebbe mai stato capace di raccogliere un euro di pubblicità e che nessuno sapeva che senso avrebbe avuto.

Ma più me lo dicevano più continuavo a ripetermi: Riders, Riders, Riders. Questo nome è così potente che sopravviverà a qualsiasi cosa, sostenevo. È un brand. Lo vedevo già sulle t-shirt, sui prodotti, vedevo già i raduni. Riders: era un aggettivo.

O lo sei o non lo sei. E non c’entrava e non c’entra niente saper andare in moto. È un approccio, uno stile di vita. O lo sei o non lo sei.

V – Il Vanity delle moto

Il primo numero esce il 6 settembre. È il giorno del compleanno di mia sorella più piccola. Lo prendo come un segno. Ewan McGregor in copertina e copertina piena di strilli. Se risfogliamo adesso quel numero si capisce subito: eravamo in cerca di identità, ma eravamo già Riders. Riunioni interminabili, scazzi totali tra chi si occupava di moda e chi di moto.

C’era chi ci dava dei froci, chi ci ha soprannominati Gayders; il commento più gentile era: siete il Vanity delle moto. C’era addirittura chi ci aveva assicurato la morte certa dopo 8 numeri. Eppure tutti i colleghi ci guardavano, i piloti volevano finirci dentro, e la rubrica delle lettere esplodeva. Eravamo più avanti di noi stessi e non lo sapevamo.

Gli altri mensili di moto avevano un linguaggio super tecnico? Noi ce ne fregavamo, eravamo precisi ma divulgativi. Gli altri riportavano interviste senza polemiche mentre dietro le spalle i piloti si parlavano malissimo uno dell’altro? Noi ce ne fregavamo e pubblicavamo tutto, facendo incazzare chiunque.

VI – Ringraziamenti

Questa, è la storia. E questo è stato l’inizio. Riders poi è diventato autorevole, ha sdoganato le special, l’importanza della bella fotografia (e di questo va dato atto alla photoeditor storica Stefania Molteni), di un’impaginazione contemporanea (by Cristiano Bottino dello studio FM) e di una moda fatta senza modelli ma con gente vera (intuizione del fashion director Filippo La Bruna).

Per anni ha dettato le regole dello stile, ha fatto scuola. Tanto che tutti gli altri (e non solo gli altri magazine ma anche brand di abbigliamento e Case motociclistiche) sono venuti dietro, capendo poco alla volta che Riders ci aveva visto giusto. Per questo devo e dobbiamo dire grazie a una persona soprattutto, sempre a lui: Roberto Ungaro. Grazie. Ha saputo trovare il giusto equilibrio tra estetica e sostanza, tra gusto e manetta.

VII – Cambiamenti

E adesso che questo discorso è chiaro a tutti, e adesso che sono tornato io ma stavolta da direttore, dopo Luca Delli Carri (che ha tenuto la barra dritta in un anno difficile), adesso che Riders è sopravvissuto – come era prevedibile – a tempeste editoriali mica da ridere, adesso che ha una linea di t-shirt, una di occhiali (che debutterà a settembre), adesso che l’editore si chiama Milano Fashion Library (un grazie va anche a Diego Valisi che mi ha scelto); ora che Riders compie effettivamente 10 anni è il momento di cambiare.

Di ristabilire le distanze. Di tornare a stimolare il vostro giudizio che ci avete sempre seguito e di cui non riconosceremo mai abbastanza il merito per averci scritto, letto, criticato. Riders mi ha cambiato, ha cambiato chi ci ha lavorato e ha cambiato anche voi lettori. E Riders, proprio al decimo anno, apre una nuova strada.

Con me c’è ancora tanto dei primi anni: c’è Stefania Freri per esempio, c’è Elisa Anastasino (che era una delle assistenti di Filippo La Bruna), c’è il photoeditor Massimiliano Schenetti di max&douglas (tra i fotografi più usati del primo Riders), c’è Maurizio Gissi (tra i columnist più affidabili). Ma ci sono soprattutto l’approccio, la voglia di vincere le sfide, quella voglia di fregarsene di chi ti dice che oramai hai già dato il meglio. Fanculo.

VIII – 10 anni intensi

Fanculo sì. Con questo numero cominciamo le celebrazioni del decimo anno, che termineranno con un evento di cui presto vi diremo tanto, tutto. Sarà epocale. Da questo numero ogni numero vi parleremo anche di noi, di come sia stato possibile tutto questo. Ma sarà l’unica concessione che faremo al passato, perché sempre da questo numero cominciamo a parlare seriamente di futuro. Guardiamo avanti, a costo di rischiare, di perdere qualche pezzo. Riders cambia faccia, contenuti, sostanza.

Chi trova cerca. Noi abbiamo tracciato un percorso. Adesso ne andiamo a cercare un altro. A costo di non essere capiti. Come è successo nei primi anni. Come è successo ai grandi esploratori (ecco perché la rubrica a pagina 32). Riders raggiungerà il suo obiettivo se riuscirà a stimolare il dibattito intorno a una domanda: come sarà il motociclista tra 5 anni? Come si vestirà, cosa guiderà, cosa penserà?

IX – Riders nel cuore

Lascio a voi scoprire cosa cambia e come. Alla fine cambia tutto e non cambia niente. Cambia tutto: rubrichisti (tranquilli qualche gradito ritorno c’è), più illustrazioni, il progetto grafico (curato da Circular e da Stefano Temporin), occhio alle nuove tendenze. Cambia niente: perché la passione è sempre quella e l’approccio sempre lo stesso. Riders.

Un nome, un brand. Un aggettivo. O lo sei o non lo sei. O hai il coraggio di cambiare quando capisci che è il momento di farlo oppure resti a casa, ti copri, e aspetti che passi la tempesta. Fanculo. Fanculo le coperte, le sicurezze, chi non sa ballare sotto la pioggia.

X – Nuovi inizi

Sì. La storia è questa. E questo è il nuovo inizio. Lavori in corso, si potrebbe dire. Diamo del gran gas ché c’è ancora una lunga strada da fare. Buona lettura motherfuckers.

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