A metà anni Duemila un’Harley-Davidson V-Rod si gettò nella mischia di una 24 ore di endurance contro le più blasonate superbike giapponesi ed europee. Scrivendo una pagina romantica (e peculiare) del motociclismo da corsa
Articolo di Manuele Cecconi
Se si pensa al marchio Harley-Davidson la prima associazione che salta in mente non è certo quella con la corse, almeno non per come le intendiamo qui nel Vecchio continente. Nonostante la XR 750 sia un mito del flat track e una delle racer più longeve della storia, non si può dire che le gare sugli ovali di terra battuta facciano parte della tradizione storica del motorsport europeo. E per la Casa del Wisconsin valgono a metà anche i sei titoli mondiali – quattro piloti e due costruttori – vinti da Walter Villa negli anni Settanta su moto che di Harley avevano poco più che il nome. Le duemmezzo e le 350 che il Reverendo portò al successo tra il 1974 e il 76 erano, a tutti gli effetti, delle Gran Premio di raffinatissima scuola italiana.
LE GARE PER I TWINS
A dire la verità a Milwaukee qualche esperimento in chiave sportiva lo hanno fatto anche impiegando il loro cavallo di battaglia, il bicilindrico a V. Prima con la XR-TT e poi con la VR 1000, twins che non bastarono a modificare l’immagine di un marchio identificato quasi esclusivamente con il mondo custom. Un universo fatto di lunghe forcelle, manubri oversize e scintillanti cromature. Certamente affascinante ma sicuramente poco racing, se non altro per i nostri standard.
RIVOLUZIONE!
A cavallo tra gli anni Novanta e i primi Duemila H-D decise di riprovare a giocarsi la carta della sportività, interpretata però in una chiave squisitamente yankee. Nacque così la VRSC V-Rod, una sorta di drag bike stradale. Pur mantenendo l’impostazione da cruiser – pedane avanzate, manubrio largo, seduta arretrata – segnava un netto passo avanti in termini di prestazioni rispetto alle sue compagne di listino. Soprattutto grazie al motore, un V-twin di 60° da 1.130 cc progettato in collaborazione con Porsche e derivato da quello della VR 1000, che introduceva innovazioni storiche per il brand americano come la distribuzione a quattro valvole con doppio albero a camme in testa e il raffreddamento a liquido. Un propulsore potente e moderno, che proprio per questo venne battezzato Revolution.
SPORTIVA SÌ, MA YANKEE
Harley era uscita dalla sua comfort zone. Certo, a dispetto del nome (la sigla VRSC stava per V-Twin Racing Street Custom) era lontana anni luce dalla tradizionale definizione di moto sportiva: il suo passo chilometrico e il bicilindrico extralarge da 115 cavalli rendevano la nuova nata concettualmente simile a una Yamaha V-Max, una maxi cruiser votata agli spari dal semaforo più che alle sgroppate sui passi di montagna. Ma anche il telaio, i freni e il comparto ciclistico costituivano un significativo upgrade rispetto alla componentistica abitualmente impiegata sugli altri modelli della Casa a stelle e strisce.
BRUTTO ANATROCCOLO
Nonostante queste caratteristiche, che ne facevano l’Harley più prestazionale e tecnologicamente avanzata di sempre, la V-Rod non riscosse il successo sperato. Tacciata di non essere una vera H-D dalla clientela più oltranzista e reputata troppo custom dai motociclisti più sportivi, la VRSC non riuscì mai a farsi apprezzare davvero né dai tradizionalisti del brand né dagli smanettoni. Finì per sopravvivere con scarsa fortuna nel listino di Milwaukee fino al 2017, anno in cui venne terminata la produzione delle ultime versioni cresciute nel frattempo di cavalli e cilindrata.
LA VRSC-RR
In pochi forse si ricordano che il propulsore Revolution venne impiegato (in una sua versione sovralimentata con un compressore meccanico) anche sui pochi esemplari della Roher 1250SC, una superbike artigianale da 180 cavalli completamente made in USA. E sulla VRSC-RR, un prototipo su base V-Rod che prese parte addirittura a una 24 Ore del Mondiale Endurance. Sì, avete capito bene: una H-D che si gettò nella mischia selvaggia di un’estenuante gara di durata, correndo contro alle più blasonate sportive giapponesi ed europee.
MOTORE HARLEY, TELAIO BAKKER
Il progetto fu avviato da Andreas Binner, titolare del concessionario H-D di Bonn, con l’aiuto di Buell Hannover e il supporto tecnico di Bakker Framebouw. Il telaista olandese costruì uno chassis in cromo-molibdeno e alluminio, una struttura mista al cui interno era incastonato il massiccio V-twin di Milwaukee. Bakker fabbricò ad hoc anche il lungo forcellone in alluminio e altre componenti dello stesso materiale come il serbatoio (dotato di sistema di rifornimento rapido), le pedane, il telaietto posteriore e i semimanubri.
LOOK YAMAHA
La moto venne approntata di tutto punto per l’impiego in pista facendo ricorso a una serie di modifiche meccaniche e ciclistiche: il motore, opportunamente elaborato, beneficiò di un impianto di scarico con layout due-uno-due e di un nuovo radiatore anch’essi a firma Bakker, ma arrivarono anche una nuova forcella upside-down e un impianto frenante con pinze radiali. Le sovrastrutture di origine Yamaha R7 donavano alla VRSC-RR un look da Frankenstein dei cordoli, accentuato da un interasse visibilmente generoso e da una stazza decisamente abbondante: a vederla così la V-Rod da corsa aveva poche speranze contro supersportive più potenti, leggere e agili. E soprattutto più affidabili, una dote fondamentale quando si parla di endurance.
ALLA 24 ORE DI OSCHERSLEBEN
Nel 2006 la VRSC-RR venne iscritta alla 24 Ore di Oschersleben, sesto round del Mondiale Endurance in programma per il 12-13 di agosto. Il team Harley-Davidson Racing Bonn, supportato blandamente anche da H-D USA, schierò un equipaggio formato dal pilota semiprofessionista Dirk Scheffer, dall’illustratore Holger Aue e dal giornalista Andy Glänzel. Nelle prove il trio fece segnare un miglior tempo di 1.41, un crono di circa 12 secondi più lento della pole position: per fare un paragone, la Superpole di Troy Corser con la Petronas nel 2004 (in quello che era stato l’ultimo appuntamento iridato delle derivate disputatosi sul tracciato tedesco) era di 1:27.687.
COME IL CALABRONE
Nonostante un problema elettrico che costrinse il team a una sosta di un’ora e un quarto in pitlane la V-Rod riuscì a portare a termine la gara, percorrendo 757 tornate (l’equivalente di 2.776 chilometri) in 24 ore senza problemi meccanici di rilievo. Con un giro veloce di 1.39 minuti stampato da Schaffler, la VRSC-RR tagliò il traguardo in trentesima posizione su 45 partenti, all’undicesimo posto nella classe Open. Un ottimo risultato che arrivò contro ogni pronostico, e forse anche contro le leggi classiche del motociclismo da corsa. Come il calabrone, che secondo il noto aforisma non potrebbe volare. Ma non lo sa, e quindi vola lo stesso.
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