La piccola Maserati cercò, tra mille difficoltà, di ritagliarsi uno spazio nel motorsport in un periodo di grande transizione che portò alla creazione di un campionato durato un solo anno

Articolo di Matteo Scarsi

La seconda metà degli anni Ottanta sembrava presentare una serie di congiunture favorevoli al ritorno in auge delle gare turismo e di un marchio storico come Maserati. Dopo il poco fruttuoso matrimonio d’oltralpe con Citroën, infatti, la Casa del tridente era alla ricerca di nuove fette di mercato sulla spinta della nuova proprietà De Tomaso. Tale proposito si concretizzò in una vettura dalle dimensioni compatte, concepita per attrarre un vasto pubblico alla ricerca di stile, prestazioni e blasone.
La Biturbo, purtroppo, non manteneva tali promesse per via di una serie interminabile di difetti e problemi di affidabilità: in questo panorama non troppo lusinghiero il motore rappresentava il pezzo forte grazie a quella sigla che tradiva una soluzione tecnica all’esordio nella produzione di massa: la doppia sovralimentazione. 

Contemporaneamente la Federazione Internazionale decideva di sostituire la suddivisione in categorie numeriche dall’1 al 7, vigente da più di due decenni, con una nuova ripartizione che privilegiasse il rapporto tra le vetture da corsa e le loro corrispondenti versioni di serie. Il Gruppo A, nomenclatura prescelta per le auto turismo, si proponeva quindi di rimpiazzare i complessi ed estremi prototipi silhouette con modelli che il pubblico potesse individuare con chiarezza e che permettessero di contenere i costi. Tale raggruppamento si rivelò ben presto affollatissimo, con schieramenti di oltre quaranta vetture all’interno di un campionato divenuto mondiale. Le caratteristiche della Biturbo la rendevano idonea alla partecipazione, nonostante le criticità emerse su strada ne sconsigliassero l’utilizzo: ma Tony Palma, romano di origini siciliane ed ex pilota, intravide del potenziale nella berlina bolognese e fondò la ProTeam con l’obiettivo di preparare due esemplari per il WTCC. Le scocche furono affidate alle sapienti mani dell’ingegner Elio Imberti, l’uomo dietro i successi a ripetizione dell’Alfa GTV nell’Europeo Turismo.

Le caratteristiche

Per trovare maggiore prestazione si agì innanzitutto sul motore: il 6 cilindri a V da 2 litri (cilindrata resasi necessaria per evitare la tassazione italiana sui modelli con cubatura elevata) a 3 valvole per cilindro venne portato a 2,5 litri per consentire di passare dai circa 200 cavalli di serie a valori nell’ordine e superiori ai 300. Ogni cavallo diventava determinante viste le regole molto restrittive che richiedevano un largo impiego di componentistica di serie limitando le possibilità di correggere i difetti: i tecnici ProTeam riuscirono a inserire un cambio Getrag a 5 rapporti ravvicinati e nuove barre antirollio. Tutto ciò non fu sufficiente perché sia cambio che frizione non erano in grado di gestire la coppia del biturbo, peraltro limitato dalla presenza dei carburatori, non essendo ancora pronta l’iniezione elettronica Weber-Marelli. Anche la necessità di rientrare nel peso minimo imposto di 1.185 chilogrammi costrinse il team a imbarcare un quintale di zavorra lasciando gran parte dei rivestimenti interni, a svantaggio ulteriore di frenata e tenuta.

Le performance in gara furono lo specchio di una condizione tecnica ancora precaria: durante tutto il corso della stagione – segnata dall’introduzione di alcune piccole migliorie come nuovi dettagli aerodinamici, turbocompressori più affidabili e il sistema di iniezione – i piloti che si alternarono al volante (tra cui Bruno Giacomelli, Armin Hahne, Giancarlo Naddeo, Stefano Livio, Mario Tesini e altri) collezionarono prestazioni opache e numerosi ritiri. La cronica mancanza di competitività portò anche alle dimissioni del capotecnico, Elio Imberti, sostituito dal duo William Sala e Gianni Neri: la storia non cambiò e la ProTeam decise di concludere anzitempo la sua avventura rinunciando alle ultime due gare. Curiosamente anche il Mondiale Turismo non sopravvisse al suo primo anno sulle scene a causa di problemi di carattere economico-finanziari.

Due avventure affascinanti guidate probabilmente più dalla passione e dall’ambizione che da effettive possibilità di successo, ma che fotografano bene l’indole di quel periodo. Le Biturbo furono dall’anno seguente oggetto di diverse evoluzioni che permisero loro di continuare a essere impiegate all’interno dei campionati nazionali (Campionato Italiano Velocità Turismo e BTCC) oltre che nel ritornato ETCC. Nella sua quinquennale e fallimentare epopea agonistica la Biturbo non tenne fede ai fasti delle vetture del tridente che decenni prima si erano affermate sui circuiti di tutto il mondo, ciononostante la sua presenza continuò a rappresentare una variante ulteriore nel variegato panorama delle berline sportive: esemplari come quello di Nick May, nella sua livrea rossa con striscia blu Campari, o la versione Marlboro di Thomas Lindstrom divennero piccole icone all’interno dei loro raggruppamenti. Il fascino dell’underdog, di chi parte ampiamente sfavorito dal pronostico, accende sempre suggestioni nel cuore degli appassionati. Ancor di più se porta quel marchio sulla calandra.

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