La storia del motorsport racconta di beffe a pochi metri dal traguardo, un po’ metafore della vita. Come reagire ce lo insegnò Nigel Mansell
Articolo di Riccardo Casarini
Foto: FP, web, Motorsportgallery
Sfiga, destino, karma. Quando, a un passo dal raggiungerlo, l’obiettivo sfugge di mano come soffiato via da una forza più grande della nostra volontà. Chiamatelo come vi pare. Che nella vita non sempre 2+2 fa 4 dovremmo saperlo. Così vale anche per le gare e anzi, lo sport, molto spesso, si fa potente metafora. Ricco com’è di storie esemplari, come un’epica contemporanea. Ricco com’è di gesti, che per pochi attimi elevano l’uomo a una dimensione nobilissima. Come quello di Nigel Mansell a Dallas, nel 1984.
Le circostanze, le avversità, l’imprevisto. Il circuito come simbolo
Nel luglio 1984 il circus della F1 sbarca a Dallas per una nuova tappa di campionato. È la prima volta che si corre in Texas e il circuito viene improvvisato in periferia; gira attorno allo stadio Cotton Bowl, delimitato da muretti, jersey e pile di gomme. Le misure di sicurezza sono a dir poco precarie. Neppure l’asfalto è dei migliori, a dire il vero: tra le sollecitazioni delle auto e le alte temperature si sgretola in diversi punti, costringendo l’organizzazione a tappare le buche con cemento a presa rapida. E poi il clima, caldo torrido, insopportabile per i suoi 38 gradi che diventano 50-55 nel posto di guida. Un weekend di malcontento per i piloti, con Lauda che guida una protesta per il ripristino del manto, Lafitte che si presenta in pigiama nel giorno delle prove e Rosberg che chiede (e ottiene) un casco refrigerato ad acqua. Le qualifiche sono una crash compilation in cui ha la peggio Brundle, che ci rimette le caviglie stampandosi a muro. Si corre comunque, anticipando la partenza alle 11 del mattino e riducendo il numero dei giri a 68, con un limite massimo di due ore di gara. In griglia, davanti a tutti, finisce la Lotus nera di Nigel Mansell. In quell’inferno l’inglese ha colto la prima pole in carriera, ma ancora nessuno lo chiama Leone.
Affermare la volontà a ogni costo. Nigel Mansel diventa il Leone d’Inghilterra
La gara incomincia. Mansell è bravo a mantenere la testa del gruppo, seguono De Angelis con l’altra Lotus, Warwik su Renault e l’esordiente Senna con la Toleman-Hart. Proprio al brasiliano il circuito chiede il primo pegno. Senna pizzica una gomma contro una barriera e scivola indietro. È la volta di Warwik, che si fa sotto, scalza De Angelis e cerca l’affondo su Nigel. Frenata lunga, testacoda e tonfo contro il muro. Nell’abitacolo della Lotus numero 12, intanto, Mansell inizia a bisticciare con il cambio che presenta problemi. Mancano ben 54 giri quando parte l’arrembaggio ai suoi danni. Da dietro, Prost, Rosberg, Lauda, Arnoux e De Angelis incrociano traiettorie, si scambiano posizioni e alternano attacchi. Mansell diventa aggressivo, si difende come può, tirando staccate e chiudendo le traiettorie. È Rosberg a spingerlo all’errore, costringendolo a cedere la posizione per una toccata al muro con l’ala posteriore, dopo 32 tornate. Nigel ha ormai stracciato le gomme e deve tornare ai box, lo fa non prima di aver subito la rimonta di Prost, Lauda e dello stesso De Angelis (con gomme fresche). Rientra in pista soltanto in settima posizione ma ormai, più che un Gran Premio, gli ultimi giri sembrano una battaglia navale, con Piquet, Alboreto, Prost e Lauda che tirano le auto come cannonate contro i temibili muri di protezione. Inizia l’ultimo, Mansell è riuscito comunque a conquistare due piazze ingranando marce a fatica. Si è portato in quinta posizione quando, ormai bollito, sbatte di nuovo contro un muro, dando così il colpo di grazia al cambio della sua Lotus. Intanto sono scoccate le fatidiche due ore di gara e, con 67 giri compiuti su 68 previsti, Keke Rosberg con la testa più o meno al fresco si porta a casa la vittoria. Più indietro, attardato, Nigel Mansell prova comunque a portare in fondo la sua vettura, senza sapere che è proprio lì, dietro all’ultima curva (l’ultima!) che la sfiga, il destino o il karma lo sta aspettando per spintonarlo a terra un’ultima volta: la Lotus resta a secco di benzina. Allora l’inglese, in uno slancio estremo che va oltre la ragione, piega il corso degli eventi alla sua tenace volontà. Slaccia le cinture, salta giù dalla macchina e spinge, spinge, spinge sotto al sole e agli applausi, fino al traguardo. Lo raggiunge, in barba al regolamento che vieta quella manovra, poi si accascia e perde i sensi, forse perché li ha usati tutti. Conclude sesto una gara che ha visto arrivare solo 8 piloti su 25 partenti. A cosa è valso, dite? A guadagnare un solo punto. Uno solo, prezioso, come a marcare la differenza tra caparbietà e rassegnazione.