La vita del pilota è fatta di tante tappe importanti. Ad esempio il giorno in cui si chiude con le gare dire stop è dura, vero Alex?
Articolo di Marco Masetti
Sembra facile chiudere una parentesi della vita, la realtà non è come la raccontano i media leggeri. Non bastano un radicale taglio di capelli, un tatuaggio che simboleggia rinascita e libertà e nemmeno un radicale cambio di look. Ricominciare vuol dire soprattutto chiudere, dire basta a qualcosa che fino a quel momento è stata la tua vita, al cento per cento. Sono scelte che ti scorticano dentro, lavorii di meningi durati notti infinite, mani che tremano, palpitazioni, fame chimica; ma anche «sudorazione azzerata e mani due spugne», per citare il vecchio maestro Paolo Villaggio.
Dire basta vuol dire salutare per sempre una persona, un giro di amicizie, un posto, un lavoro, un’attività. Magari quella di pilota.
L’attività di pilota non somiglia per nulla al mondo della nautica o a quello della moto d’epoca, uniti da una frase tremendamente vera che suona così in tutte le lingue: «Esistono due giorni belli, quando la compri e quando la vendi». Quando sei pilota ci sono il primo giorno, la prima vera gara, magari la prima vittoria e poi si continua. Un pilota corre e il resto è sfondo, scenario. La vita di tutti i giorni, quella dei comuni mortali, di quelli che non sanno tirare fuori il massimo da un veicolo a motore e che non sono stati baciati dal turbine luminoso del talento. Poi c’è l’ultima gara, quella che chiude la carriera. Non è un momento felice, perché chiudere il rubinetto della gioia, della passione, dell’amore per il rischio è un gesto semplice, ma di rarissima potenza. Roba da samurai che abbassano la katana al volere di uno shogun, anche se il loro istinto sarebbe usarla. Come un predatore che molla la preda a due centimetri dalla sua gola, come il bomber che appende le scarpe al chiodo… Momenti terribili, decisioni sofferte accompagnate dall’assordante silenzio dei motori che si spengono.
Caro Alex, oggi hai detto stop ad una carriera che ha occupato buona parte della tua vita. Già, vent’anni di Mondiale, più tutta l’attività giovanile, significa che è da quando hai compiuto anni anni che pensi alle corse. Minimoto e poi 125, con la Hondina di Massimo Matteoni, nel Mondiale, anno 1999, wild card nel GP di San Marino. All’epoca per me De Angelis era un organismo pluricellulare formato da Alex e da suo fratello William. Funzionava così: urlavi «De Angelis!!!» e arrivavano entrambi. Due al prezzo di uno, ragazzini simpatici che erano arrivati nel mondo dei sogni, il Mondiale. William dopo un po’ e dopo un brutto infortunio ha lasciato. Alex è andato avanti a suon di grinta e voglia di sfondare. 125, 250, MotoGP, Moto2, Superbike, MotoE: ha corso con tutto e, se non ricordo male, a parte le elettriche, è andato almeno a podio in tutte le classi. La vita di questo monumento dello sport ha spesso incrociato la mia. Viaggi interminabili tra un pista e un’altra saltando continenti e stagioni. Pranzi, cene, vacanze, rivali, fidanzate, incazzature, risate, serate, colazioni, gente che si è comportata in maniera esecrabile e altra con la quale si è stabilito un rapporto che durerà una vita. E queste ultime persone sono purtroppo molte meno rispetto alle precedenti. È la vita, e continua anche quando si dice basta con le gare. Tanto si resta nel giro. Manager, pilota istruttore, coach, opinionista o esperto in tv. Va bene così, Alex, hai fatto grandissime cose nello sport, sei sui libri di storia, hai dato lustro alla tua nazione… cosa vuoi di più? Sì, manca una cosa: grazie per questi venti anni in cui ci siamo visti dentro e fuori dal paddock. Grazie per quelle cosine da pilota che mi hai insegnato che mi fanno fare bella figura quando dottoreggio.
E poi hai una famiglia che ti vuole bene, più il tuo team di amici, cane compreso. Un abraz!