Con un po’ di fantasia anche un vecchio motorino francese con la trazione della parte sbagliata può diventare il protagonista di un’impresa eroica. Che poi tra CAMION, fossati e qualche lambrusco di troppo, per fare sessanta chilometri con un Solex un po’ di coraggio bisogna averlo per davvero
Di Marco Masetti
Prima di diventare un top player di divaning (individuale, a squadre e figurato), sport pericoloso e altamente dispendioso dal punto di vista psicofisico, nel quale si passa da un bracciolo all’altro del divano con supremo sprezzo del pericolo, facevo anche dell’altro. Certo, il lettining con abbronzaggio tecnico sulle spiagge di mezzo mondo mi ha visto protagonista, come del resto il pet sleeping che consiste nel dormire profondamente in compagnia di animali domestici: sono mie specialità . Eppure, qualche tempo fa ho fatto anche cose più impegnative e rischiose, in sella ad una moto. Mi son fatto l’Australia per il lungo, un po’ di Africa, le Alpi con una Honda XL 200 – in due con il bagaglio – oltre ad una serie notevole di cose sulle quali il Codice della Strada avrebbe avuto parecchie cose da ridire. Ma io sono una persona fortunata, i malestri li ho fatti in un’epoca in cui nessuno aveva uno smartphone in mano, nella quale i social non erano nemmeno immaginabili e le uniche telecamere erano quelle delle TV. Bei ricordi, nessuna cosa che può emergere dal web e chi si è visto si è visto. Affari vostri, giovani trasgressivi e vittime di Tik Tok, adesso al massimo mi possono fare un autovelox.
Avrei milioni di ricordi, di miracoli da raccontare, forse lo farò. Ma tra tutti questi momenti magici, uno ha il potere di farmi rivivere attimi di terrore con una forza che cancella gli anni passati. Il raid con il Solex. Avete presente il simpatico ciclomotore francese con il motore sulla ruota anteriore che trasmetteva il moto con un rullo abrasivo a contatto con la gomma? Una roba che solo i francesi potevano inventare, un moto a trazione anteriore. Lo smontavi con due attrezzi, si nutriva di poca miscela al 4%, aveva prestazioni ridicole, sul pavé bagnato era più pericoloso di una 500 due tempi da Gran Premio. Ma era simpatico, piaceva a sacerdoti, a sex symbol come Brigitte Bardot, a piloti di Formula 1, playboy e operai. Una di quelle cose geniali che oggi non si fanno più. Roba proletaria ma cool, con stile.
Insomma: me ne ritrovo uno in garage e lo uso per qualche giretto. Eravamo negli anni Ottanta, era oramai raro vederlo in strada, ma restava un oggetto carino. Lavoravo presso un editore bolognese e un mio collega, all’epoca inviato in Formula 1, ne aveva uno simile. Un 3800, come il mio. Ma li vogliamo perfettamente a punto, perché essere bohémien va bene, ma la roba deve essere perfetta, come le moto e le auto che corrono nel mondiale. A Bologna non c’era nessuno in grado di mettere le mani su un Solex al livello che noi avevamo in testa, ma un insider mi dice che a Modena c’è un guru dei motorini francesi, un esperto assoluto che ha anche il banco prova della Solex che avevano le officine specializzate. Vamos, senza indugi andiamo dal guru. Naturalmente in sella al Solex. Senza casco, con un foulard di seta al collo e una bottiglia di miscela nella borsa per un eventuale rabbocco. Si parte! La strada è tutta dritta: da San Lazzaro di Savena a Modena c’è la via Emilia. Una sessantina di chilometri, due ore abbondanti di viaggio stimate, più sosta crescentine, prosciutto e Lambrusco.
I problemi iniziano subito nel traffico di Bologna. Il Solex non ama gli stop&go. Non frena, e per scattare al semaforo bisogna pedalare come un gregario al Tour de France. In più le puntine perdono colpi, la bobina si surriscalda, il motore puzza già di strinato, come si dice a Bologna. La camicia azzurro chiaro di Cesare Maria, il mio compagno di avventura, è già puntinata di pallini di olio incombusto, mentre la mia chioma odora di gasolio per autotrazione. Intanto Bologna è alle spalle, quindi senza freni lungo la strada tracciata dal triumviro e pontefice massimo Marco Emilio Lepido. Già, perché il Solex va sempre a tutto gas. Si “chiude” frenando, altra bizzarria dei progettisti transalpini… si vola a trenta orari tra pioppi e fabbriche, è l’Emilia, quella grassa e ricca.
Più o meno un paio di chilometri dopo Borgo Panigale iniziano i problemi seri. Noi viaggiamo a trenta orari, le auto fanno velocità per noi fotoniche e ci sfiorano pericolosamente, ma la bestia vera si chiama camion. I TIR che portano maiali, materiali ferrosi, laterizi e affini ci passano, e la loro scia ci fa andare almeno ai sessanta. Il pistoncino frulla oltre ogni limite e il manubrio non risponde agli ordini. Il fosso, tradizionale presenza in una terra agricola è li, a due passi dalla strada, e ci chiama pericolosamente. E ci afferra un paio di volte. Paura allo stato puro, la camicia è lercia come uno straccio da officina, i capelli hanno una guarnizione di piccole alghe puteolenti e fango. I motori sono provati e perdono ancora potenza. L’osteria ci apre la porta. E vai di prosciutto e tigelle, crescentine e salame.
Il vino ci ridà fiducia nell’impresa disperata. Errore: siamo ancora distanti dalla meta, le gambe son pesanti e uno dei due motorini ha deciso di ammutinarsi. Candele a raffica, qualche bestemmione (esecrabile, lo so, ma i motori interagiscono con noi attraverso questo blasfemo linguaggio) e una pedalata di un chilometro e passa: il ronzio si fa di nuovo sentire. Altri camion, altri fossi, altre paure, soprattutto in rotonde e sopraelevate dove ci sentiamo anacronistici come un cavalleggero armato di sciabola contro i carri armati. Poi l’officina, la nuova Gerusalemme che ci attende, salvifica e ristoratrice. Affidiamo i mezzi al guru, lo salutiamo dicendo uno spontaneo “faccia con calma” e saliamo su un’auto che ci era venuta e recuperare. Recuperai il mio mesi dopo. Il guru, stizzito, mi disse: “Va bên la chelma, ma son passati sei mesi”. L’altro, credo, sia ancora a Modena.