Nel 2018, per promuovere il proprio marchio, Elon Musk lanciò nello spazio una Tesla Roadster. Nel 1973, quando ambire all’universo era prematuro, la Bultaco tentò di spedire sei Sherpa 350 sul tetto del Mondo
Di Riccardo Casarini
Parliamo di scalate, ma non quelle che si infilano in staccata. Di quelle che si fanno in salita e, per eccellenza, sugli “ottomila” dell’Himalaya. Ci viene in mente Reinhold Messner che se le fa in solitaria, senza ossigeno, oppure chi le affronta in comitiva, supportato dagli sherpa. Allora noi vi raccontiamo della terza via, meno nota ma con una filosofia più affine al nostro mondo: quella che portò a scalare l’Himalaya con le Sherpa, al femminile, non le guide locali delle montagne del Nepal ma le trial di Bultaco. Oggi non sarebbe possibile perché l’ascesa al tetto del mondo è interdetta ai mezzi a motore, ma nel 1973 non era in vigore alcun divieto e una spedizione catalana tentò l’impresa. Perché farlo? Ammesso d’essere sani di mente e non aver esagerato con il Tempranillo? «Perché la montagna è lì». Tagliava corto Lluís Solé Guillaume, fotografo e cameraman dell’avventura scomparso nel 2019 alla soglia di 101 primavere.
STO WEEKEND? GIRETTO IN NEPAL? Tutto nacque da un’idea di Ramon Garcia Nieto, che assieme agli amici del Real Moto Club de Catalunya si propose di organizzare la cosa e reperire i fondi attraverso qualche sponsor. La squadra venne così composta: Garcia Nieto nel ruolo di organizzatore, Gerard Pascual il medico, Jaume Samsò Puig il meccanico, Dimas Veiga, all’epoca ufficio stampa di Seat e, come guida, Rafael Puig Bultò, nipote di Don Paco, fondatore del marchio Bultaco. Non ultimo Lluís Solé Guillaume, escursionista esperto che nonostante i 55 anni non sembrava preoccuparsi nemmeno lontanamente della possibilità di un infarto ad alta quota. Scroccarono facilmente le moto a Bultaco, e raganellati quattro soldini battendo cassa a Fujicolor, Pirelli, Varon Dandy si imbarcarono su un aereo diretto a Lukla, non prima di aver firmato qualche scartoffia. Era il novembre del 1973 e il pelo ferreo sullo stomaco era già in dotazione.
HIMALAYA, NAMASTÉ! Dopo un tandem aereo arrivarono nel distretto del Solukhumbu, 450 metri sul livello del mare. Il tempo di preparare il materiale da campo, incontrarsi con le guide locali e rimontare le Sherpa 350 (con targhe sequenziali, dalla B-0001-Y alla B-0006-Y), e si misero quindi in viaggio verso la vetta del Imja, a sud-est del monte Everest. Alle 10 del mattino di quell’8 novembre ‘73. Scalarono giorno per giorno a dorso di Sherpa, ma anche trainandosi con le funi, spingendo e cadendo. Cadendo tanto, ovviamente. Tra il freddo e qualche contusione raggiunsero il monastero di Tengboche, il luogo di culto buddista più alto al Mondo. Tirarono dritto, anzi, verso l’alto, finché la neve si fece una costante e così il gelo, coi suoi -18° notturni. Alle 14:05 del 16 novembre si guardarono in faccia stanchi e, con le Bultaco bloccate nella neve fresca, decisero che si erano avvicinati abbastanza al cielo. L’altimetro indicava 5.156 metri. Fecero ritorno in 7 giorni, pazienti, scortando le moto a mano per buona parte del cammino, troppo provati e un po’ malconci per guidarle fino Lukla. Dopo giorni di riposo presero il biplano che li portò a Kathmandu, dove dovettero far pressione per riportare via con sé le Bultaco, che le autorità nepalesi cercarono di trattenere con qualche scusa improvvisata circa l’irregolarità dei documenti. Da lì, verso la Catalunya, la dolce casa, dove arrivarono il 3 gennaio ‘74 e dove ben presto l’eco dell’impresa spinse altra gente a tentare le ascese impossibili (il Moto Club Igualada raggiunse, sempre con le Sherpa T 350, i 5.800 metri sul Kilimanjaro). Grazie alle riprese e alle foto di Guillaume possiamo rivivere quell’avventura attraverso il documentario Moto Himalaya 73, oppure “scalando” le pagine del libro di Veiga Himalaya, namasté. E renderci conto che, viste a bassa quota nel presente e lontano nel tempo, queste sfide appaiono ancora più grandi.
Foto: Cec.cat, Donkeymotorbikes, Todocollecion