Attraversare l’Oceano per correre in America significa sperimentare un tipo di gara completamente diverso. Tra scarsa sicurezza e brusche sterzate, c’è di che divertirsi, come racconta Vicky Piria, la pilota più veloce d’Italia
Proprio come al bar in piazza la domenica mattina, anche nei paddock, durante i weekend di gara, piloti, ingegneri e addetti ai lavori si ritrovano a prendere il caffè e a fare due chiacchiere nelle hospitality. Niente discorsi su meteo e politica: l’argomento più gettonato nelle scorse settimane è stata l’avventura di Alonso a Indianapolis. Pareri e pronostici: rinunciare al Gran Premio più affascinante della stagione – quello di Montecarlo – per la gara storica che smuove l’America, la 500 Miglia di Indianapolis. Due eventi all’opposto.
Da una parte la città del lusso, in cui i piloti sfiorano i guard-rail, percorrono curve lente e tecniche e affrontano una gara dai sorpassi impossibili. Dall’altra, uno degli impianti sportivi più capienti al mondo. Indianapolis offre il palcoscenico di una corsa spettacolare, fatta di scie e sorpassi, in cui i piloti toccano a malapena il pedale del freno e girano il volante solo verso sinistra.
Una contrapposizione estrema; che ben rappresenta quanto diverse possano essere le competizioni europee da quelle che si tengono negli Stati Uniti.
Europa vs America: la prima volta di Vicky Piria
Ne so qualcosa pure io. Nella mia carriera, infatti, ho corso principalmente in Europa ma, qualche anno fa, ho avuto anche io la fortuna di fare una breve esperienza nel mondo delle corse americane, per la precisione nella categoria Pro Mazda – Road to Indy. È una pre-serie pensata per formare i piloti in vista della loro partecipazione alla Indycar.
Dopo una stagione in Formula 3 ho avuto così l’opportunità di tentare il mio personalissimo american dream. Mi sono ritrovata, da un giorno all’altro, a bordo di una vettura del team JDC MotorSports, per uno shake-down in uno sperduto circuito vicino a Savannah, in Georgia. Ero curiosa ed eccitata, e non avevo proprio idea di cosa aspettarmi. Dopo essermi confrontata con il mio ingegnere di pista mi sono calata in auto. Un vero shock!
La mia monoposto letteralmente non stava in pista; guidarla significava ingaggiare una lotta continua con il volante. Nel giro di qualche passaggio ho capito come il problema non avesse a che fare con l’assetto o l’aerodinamica. Quelle macchine, semplicemente, vanno guidate così, sempre in controsterzo, sempre con la sensazione di essere al limite.
Corse al limite
A complicare il tutto, la pista su cui ho effettuato il test: stretta, senza vie di fuga (o quasi) e con un sacco di curvoni da quarta, molto veloci. Divertente eh; ma di certo poco adatta per capire il comportamento di una macchina così diversa e così grezza – l’aerodinamica era dieci anni indietro rispetto alle monoposto delle serie minori europee – da quelle a cui ero abituata.
Con mio grande stupore, ho fatto segnare il primo tempo tra i miei compagni di squadra, ma non ero per nulla convinta di quello che stavo facendo. Anzi, ero molto preoccupata. Eravamo lì per preparare una gara che si sarebbe svolta in un circuito cittadino, ma stavamo provando in condizioni completamente diverse. Ricordo di aver esposto il mio pensiero al resto del team. La loro risposta, mentre sorseggiavano una birra dal colore improbabile? «Speriamo di arrivarci al Gran Premio! Sabato danno allarme tornado!».
Inutile dire come ci sia rimasta, ma non ci ho messo poi molto ad adattarmi a quello spirito. Certo, guidavamo auto tutt’altro che all’avanguardia, praticamente senza telemetria e con scarsissime possibilità di regolazione; ma tutto era crudo e vero. Con estrema disinvoltura passavamo da un ovale incandescente a circuito cittadino ricavato nel mezzo di un aeroporto. La sicurezza era prossima allo zero, ma se uscivi vivo da un botto venivi trattato come un re. Tutto in stile o la va, o la spacca. Tutto come dovrebbe essere sempre, per divertirsi e far divertire la gente, magari vincendo.
VICKY PIRIA
Pilota di auto, la più veloce d’Italia