Ottant’anni passati da un pezzo e delle vite che sembrano romanzi. Sono quelle di due campioni che hanno furoreggiato nel dopoguerra, quando il motociclismo mondiale parlava italiano e la voglia di vincere era incommensurabile.
Italiane erano molte delle marche più gloriose di quegli anni – Moto Guzzi, Mondial, Moto Morini, MV Agusta, Gilera – che sono diventate protagoniste di un’epoca grazie a piloti che hanno scritto la storia delle due ruote.
Due di loro, Carlo Ubbiali ed Ernesto “Tino” Brambilla, esercitano ancora un forte carisma mentre, nello spazio dedicato all’Autodromo di Monza all’interno di EICMA 2016, parlano delle loro vite straordinarie, dominate da audacia e intraprendenza, grazie alle quali sono riusciti a emergere nel motociclismo sportivo.
Un’infanzia trascorsa nelle officine dei padri, il primo a Bergamo, il secondo a Monza, con solo qualche anno di differenza ma talento e versatilità comuni, primeggiando in un’epoca in cui la carriera di pilota era costellata di difficoltà e bisognava essere duri in pista come nella vita.
Carlo Ubbiali ricorda ancora l’episodio che segnò tutta una carriera. Aveva solo diciassette anni nel 1947 quando, mingherlino e intimorito, si recò dal capo della Polizia di Bergamo per chiedergli in prestito una vecchia DKW 125. Era uno sbarbato, ma il carattere del campione stava già emergendo. Grazie alla temerarietà dimostrata in quella situazione, riuscì a mettere insieme moto e coraggio necessari per gareggiare sul circuito delle Mura di Bergamo. Era il suo esordio e tutto stava iniziando con un piccolo inganno poiché Carlo, per partecipare, mentì sulla sua età dichiarandosi già maggiorenne.
Era piccolo e spaventato il giorno della competizione. Schierate con lui c’erano le MV ufficiali, le Guzzi, le Gilera, e gli altri piloti lo guardavano con sufficienza. Ma abbassata la visiera nessuno rideva più, tanto che, quel ragazzino minuto con una moto improvvisata, vinse platealmente la gara sbaragliando i piloti delle case ufficiali. Nonostante la successiva squalifica, quando si scoprì che aveva falsificato la data di nascita, il suo talento era stato notato e la sua carriera aveva preso il volo. L’anno seguente venne ingaggiato dalla MV Agusta e successivamente dalla Mondial, vincendo 9 titoli mondiali in dieci anni, nelle classi 125 e 250, divenendo così il re delle piccole cilindrate, non senza collezionare esperienze anche nella regolarità.
Si trattava di un’epoca in cui la carriera del pilota era trasversale e bisognava essere versatili. Le stesse mani che stringevano manubri e volanti, erano capaci anche di riparare un motore, grazie a conoscenze di meccanica immagazzinate in officina e, al tempo, essenziali per un pilota.
Il caso di Tino Brambilla, classe 1934, è l’esempio più rappresentativo della poliedricità richiesta in quegli anni, quando i campioni erano completi e la spavalderia era indispensabile fin dalla giovane età per farsi largo nell’ambiente.
Tino vinse la sua prima gara a diciannove anni, con una Rumi 125 sul circuito di Trecate e, di lì a qualche anno, fu ingaggiato dal Conte Agusta in persona come pilota ufficiale MV. Corse per una decina d’anni, con le due ruote, collezionando tre titoli italiani e ottimi piazzamenti nel Mondiale.
Era uno a cui piaceva vincere, Tino, e inseguiva il successo in ogni disciplina che praticava: dalle bici ai pattini, alle moto fino ai kart e alle automobili, passaggio, quest’ultimo, avvenuto all’età di trent’anni a Monza, in seguito all’invito dell’allora direttore dell’Autodromo Gianni Restelli, che gli fece intraprendere una nuova carriera in Formula Junior e, successivamente, in Formula 3.
Due vite fuori giri, quelle di Carlo e Tino, che hanno conosciuto immense soddisfazioni ma anche serie difficoltà, ambientate quando i soldi erano pochi e si doveva andare avanti grazie alla passione e al sapersi reinventare. Se si guardano indietro oggi, alla soglia dei novant’anni, non possono che sentirsi appagati dalle esperienze straordinarie che hanno provato sulla loro pelle, e dalle pagine di storia che hanno contribuito a scrivere. E questa è l’eredità in assoluto più bella che ogni campione merita di conquistare.