Caterina Molin è una ragazza determinata e volitiva, una che ha sempre avuto le idee chiare su cosa voleva fare da grande. Un cammino, quello che l’ha portata a diventare una tatuatrice quotata, che ha intrapreso fin da bambina, quando esprimeva una creatività prorompente disegnando e pasticciando con i colori. Caterina ha percorso una lunga strada e molta ne ha ancora davanti perché, sostiene: «Non si finisce mai di apprendere». Oggi lavora nello studio Milano City Ink, dove siamo andati a incontrarla assieme a BMW durante il Walk in day organizzato da Jameson, il whiskey irlandese per cui ha disegnato un’etichetta in stile giapponese, quello che la contraddistingue e che è diventato il suo marchio di fabbrica.
Com’è iniziata la tua carriera di tatuatrice, è una cosa vocazione che hai sempre avuto?
«I tatuaggi sono arrivati quasi per caso nella mia vita. Ho iniziato intorno ai 13 anni con l’apparecchiatura per i tatuaggi di trucco permanente di mia mamma. Lei era un’estetista e non voleva farmi provare perché mi considerava troppo piccola e temeva mi facessi male. Io invece ero incuriosita da quell’oggetto e un giorno, di nascosto, l’ho montato e mi sono fatta da sola un piccolo tatuaggio. Mi sono resa conto che il risultato era buono e così ho insistito su quella strada. Mi sono iscritta a un’accademia di Milano dove ho conosciuto Sabri Ink Lady, una pioniera del tattoo in Italia, nonché un’ottima insegnante e una grande persona, che mi ha preso sotto la sua ala e mi ha indirizzato in questo mondo. È stata lei a presentarmi Costantino Sasso, che mi ha accolto nel suo studio di Marigliano facendomi fare una grande gavetta, dove ho lavorato per due anni e mezzo per poi approdare qui, al Milano City Ink».
Eri già portata per natura a disegnare?
«Sì, sono proprio nata con la matita in mano. All’asilo non aspettavo altro che ci fosse un giorno di pioggia per non dover uscire a giocare e starmene in classe a disegnare!».
Come hai sviluppato il tuo stile personale?
«È stato molto difficile trovare uno stile che mi soddisfacesse. All’inizio mi attirava il genere new school, poi, per imparare, ho fatto molta pratica sul tradizionale fino a che, sgomitando, ho trovato il giapponese, che è molto complesso a livello tecnico perché bisogna saper fare tutto: linee, colore, sfumature, composizione. Per eseguire un buon lavoro giapponese bisogna possedere delle conoscenze che tuttora sto acquisendo, non si finisce mai di apprendere: mi aggiorno, guardo sui social i lavori dei colleghi per cercare di carpire qualcosa di nuovo da come lavorano gli altri. È una crescita continua, soprattutto perché ogni soggetto esprime un determinato significato, bisogna sapere a cosa va accostato e a cosa no, perché nella cultura giapponese esistono delle regole ben precise che bisogna saper rispettare per non incappare in errori grossolani».
Di certo il tuo stile è stato notato da Jameson, dato che ti ha fatto disegnare un’etichetta.
«È stata una cosa originale, mi sono divertita un sacco a realizzarle. Jameson è molto vicino agli artisti tramite iniziative e progetti pensati a valorizzarne la creatività. In questo caso sono stati scelti cinque studi a Milano, ognuno ha proposto il suo rappresentante – per Milano City Ink sono stata selezionata io – e ognuno ha realizzato un’etichetta. Penso sia stata scelta quella un po’ più quotata e da lì abbiamo iniziato la collaborazione per l’evento del Walk in day, ovvero una giornata in cui chiunque poteva venire a farsi tatuare senza prenotazione scegliendo un soggetto tra quelli a disposizione. Una volta eseguito un tatuaggio, questo non poteva più essere replicato, quindi prima si arrivava e più scelta c’era. Il tutto in un’atmosfera di festa, con dj set e un bar in cui venivano preparati i migliori cocktail a base di Jameson whiskey».
Si percepisce una dimensione catartica del dolore e un rapporto di confidenza fra cliente e tatuatore.
«Assolutamente. Una delle cose che più amo dello stile che ho scelto di portare avanti è che il tatuaggio va al di là del fattore estetico. Della serie: “Caterina, io voglio una carpa con le onde”. Ai clienti chiedo di raccontarmi la loro storia, quello che vogliono esprimere attraverso il tatuaggio. Poi ci penso io a selezionare quella serie di soggetti che, tramite le storie e le mitologie, possono rappresentare al meglio quello che vogliono dimostrare. Perché rischiano, altrimenti, di tatuarsi un soggetto che in realtà non gli appartiene affatto o che non descrive la storia che vuole mettere su pelle. Quindi è bellissimo perché, quando il cliente comincia a raccontarti quello che vuole rappresentare, il suo vissuto, le sue esperienze, si entra in simbiosi e s’instaura un rapporto di grande confidenza. Inoltre, spesso i tatuaggi che realizzo sono molto grandi e questo mi porta a vedere la stessa persona più volte per diverse ore al giorno e inevitabilmente si chiacchera tanto, si ride, si scherza, si fa anche amicizia e poi si resta in contatto».
Ci sono persone che arrivano a tatuarsi in momenti di crisi per esorcizzare un dolore. Il tatuaggio può avere una funzione terapeutica?
«Certo. Che sia per superare un dolore o per celebrare un avvenimento felice, quando una persona decide di tatuarsi non è mai una cosa fatta a caso e non è mai uno sfizio. Ma anche se lo fosse ben venga però, quasi sempre, la scelta di un soggetto ha sempre un racconto dietro che va sviluppato e le persone hanno sempre qualcosa da comunicare».
In realtà sei tu che comunichi attraverso loro.
«Io sono solo il canale che trasforma la loro idea in qualcosa di bello che li rappresenta e con cui possono poi andare in giro contenti, orgogliosi del loro tatuaggio. E la cosa arricchisce molto anche me, perché le loro esperienze di vita mi coinvolgono emotivamente».
Qual è il significato dei tuoi tatuaggi?
«Tutti i miei tatuaggi hanno un significato positivo. Uno cui tengo molto è quello del mio braccio destro, che ho fatto per puro amore del mio maestro, la persona che mi ha messo la macchinetta in mano e mi ha insegnato tutto ciò che so. Quindi il braccio destro, con il quale lavoro, non poteva che farmelo lui ed è dedicato a lui: Costantino Sasso. Il sinistro, invece, è stato il braccio dell’apprendimento. Ho grande stima per un artista che lavora in Germania e si chiama Pino Cafaro, uno dei migliori tatuatori di stile giapponese che ci sia e da cui ho scelto di farmi tatuare. Mi ha insegnato tante cose perché ho visto il suo metodo, la tua tecnica, come lavora».
Che rapporto hai con le moto?
«Ho una grande passione ereditata da mio papà. Mi ha comprato la prima moto quando avevo 17 anni, una Suzuki GZ Marauder 125 verde, bellissima. Anche mio marito è un motociclista: possiede una Harley-Davidson Forty-Eight tutta customizzata che spero di rilevare appena se ne comprerà un’altra. Per il momento viaggiamo insieme e frequentiamo il mondo delle moto, che con i tatuaggi va a braccetto».
Articolo di Eleonora Dal Prà
Foto di Niccolò Rastrelli