Spirituale, profondo e introspettivo, con una sensibilità spiccata e un desiderio continuo di esprimersi attraverso la musica, Claudio Niniano è un cantautore milanese che al palcoscenico preferisce la strada e alla routine predilige il viaggio. Zaino in spalla e chitarra al collo, Claudio è un busker che ha scelto di comunicare senza barriere, per annullare la distanza tra le persone e colmare il vuoto dei deserti interiori che si sperimentano nelle relazioni umane. Uno spirito senza paura, il suo, che rispecchia il motto del whiskey irlandese Jameson, Sine Metu.
Com’è stato il percorso che ti ha portato verso la musica?
«Ho iniziato a 11 anni suonando il violino per poi passare alla chitarra e al canto, avvicinandomi a uno stile cantautorale di stampo folk americano. Grazie a un viaggio di un anno negli Stati Uniti sono cresciuto umanamente e musicalmente, sentendo questa passione sempre più preponderante, tanto da divenire una professione che oggi comprende diversi ambiti: mi esibisco nei locali, a vari eventi, compongo le mie canzoni e, da sette anni, suono per strada. Quest’ultima è un’attività nata dall’esigenza di mettermi in gioco, senza avere filtri o aspettare intermediari e oggi rappresenta una parte integrante del mio lavoro».
Che cosa ti dà la strada rispetto a un locale?
«La strada mi dà un’estrema liberà, nonostante sia un luogo in cui ci sono delle norme da rispettate. Io faccio parte dell’Associazione degli Artisti di Strada di Milano che si preoccupa di qualificare la figura del busker come un elemento che si integra all’interno della città e non come una figura di disturbo. Quindi la strada dà una grande libertà nonostante le regole e va rispettata perché di tutti. Poterla abitare con la mia musica è qualcosa di speciale, perché consente ai passanti di fermarsi se ne hanno voglia, ma anche di continuare a camminare se non si sentono attratti, quindi non c’è la staticità del locale, ma una dinamicità molto più naturale».
Ogni tanto anche musicisti di fama internazionale improvvisano un live tra la gente. Significa che la strada richiama gli artisti?
«Noi non ce ne accorgiamo, ma le radici della musica sono nate così. Per esempio il blues del Mississippi degli anni Trenta deriva da persone che suonavano per strada per guadagnarsi da vivere. È una cosa geneticamente insita nell’essere umano e ce la portiamo dentro».
In cosa consiste la musicoterapia di cui ti occupi?
«È un approccio che utilizza il suono della musica per entrare in relazione con gli altri e, se possibile, dare supporto in diversi ambiti sanitari, dalle disabilità alle malattie gravi. È una disciplina che ne racchiude in sé tante altre, perché un musicoterapista fa un corso di studi che prevede poi anche la frequentazione di vari laboratori per formarsi a livello musicoterapico. La base scientifica è quella della psicologia dinamica».
Ti piacciono le moto?
«Ho avuto una Vespa d’epoca. Non mi piace correre, preferisco andare piano e vedermi il paesaggio. Mi piacerebbe prendermi una piccola moto, ideale per viaggiare e accumulare esperienze e sensazioni».
Jameson ti ha individuato come testimonial, come mai, che cosa vi accomuna?
«Io vivo la musica con sincerità. Il progetto Jameson Street, che mira a supportare il talento degli artisti di strada, è legato allo spirito irlandese, dove il busker è molto presente. Penso che, in fondo, ci accomuni questa semplicità».
Parli molto dei viaggi e della libertà nei tuoi pezzi?
«Sì, il viaggio è un tema ricorrente. Il mio ultimo disco, Deserts, è dedicato al viaggio e ai deserti, non soltanto fisici e geografici, ma anche interiori, che si sperimentano all’interno delle relazioni umane. Parla di grandi spazi aperti che ti danno la possibilità di confrontarti con le tue emozioni più profonde, che spesso emergono proprio quando sei in movimento, al di fuori della tua routine».
Sei un tipo che viaggia con lo zaino in spalla?
«Zaino in spalla, certo, oppure con il mio minivan camperizzato. Che cosa c’è di meglio?».