Marco Masetti ricorda il campione che ha lasciato un vuoto nella MotoGP, un leone che resterà giovane per sempre
Articolo di Marco Masetti
Niente da fare, ogni tanto Marco mi torna in mente. Già, Marco Simoncelli, un ragazzo al quale ho voluto bene e del quale non mi dimenticherò mai e che, lo so, mi sta sfidando dall’altrove, nel quale opera attualmente, a scrivere qualcosa senza cadere nella lacrima facile, nella retorica insopportabile, quella che, ai tempi del suo funerale, fece straparlare e strascrivere molta gente che, in quella tristissima occasione, cercava lampi di notorietà.
Quel giorno a Coriano
Io quel giorno a Coriano ho chiuso con molte persone, nel senso che magari le saluto anche in qualche occasione pubblica, ma con le quali non potrò mai e poi mai avere un rapporto umano. Con un collega spagnolo, parlando nella lingua franca del paddock, commentammo così: «Questo è il business de l’entierro». Magari non è vero, sono solo uno indurito dalla vita e troppo smaliziato, ma di quella funzione funebre ricordo solo tante facce che erano li perché bisognava esserci e poche realmente espressive. Su tutte quella di Jorge Lorenzo, uno che della paura della morte non ha mai taciuto.
Basta, quel giorno mi ha lasciato tonnellate di scorie tossiche che devono restare sepolte, come i rifiuti nelle tante Terre dei fuochi. Sopra potranno crescerci anche fiori e piante, frutta e verdura che non mangerò mai perché so essere malate.
Freni a manaza
Marco oggi avrebbe 33 anni e, probabilmente, starebbe smadonnando perché il Mondiale non riparte. Avrebbe potuto scrivere la storia della MotoGP, lo diciamo in tanti, perché aveva quelle doti che solo i grandi hanno. Con qualcosa in più che me lo rendeva irresistibile. L’essere fuori taglia, ad esempio. Un cristo d’uomo che in moto non sarà mai bello da vedere, ma tremendamente deciso. Due mani grandi come badili, con le quali usava le leve senza troppo garbo. Freni a manaza, cioè con quattro dita, lo prendevo per i fondelli. Per me un pilota elegante usa un dito solo sulle leve al manubrio, ma capivo Marco: aveva la spanna più grande della mia, quindi qualcosa di vicino ai trenta centimetri! Solo Paolo, suo padre, ci batteva e lo sapevamo entrambi che contro le manone del babbo non c’era difesa.
Dico una cosa terribile, dal punto di vista professionale: era un amico. Nel senso che non ho mai avuto un rapporto esclusivamente professionale con lui. Confidenza, pochi peli sulla lingua e nessuna ipocrisia anche negli scazzi, per altro rarissimi. Del resto, quando uno ti chiama la mattina del primo dell’anno dalla Tunisia per chiederti quale esercito avesse vinto la battaglia del passo di Kesserine nel febbraio del 1943, significa che ha fiducia in te.
Marco sulla Aprilia 125
Mi ricordo di Marco sulla Aprilia 125: faceva ridere per quanto fosse grande rispetto alla moto. La cosa buffa che ricordano in pochi è che con lui in squadra c’era Chaz Davies, un altro che il metro e ottanta lo aveva passato a 14 anni. Mi piaceva perché aveva i capelli lunghi e perché quando si arrabbiava non aveva paura di niente e di nessuno. Marco è stato l’ultimo pilota vecchio stile. Cioè con le sue idee, lontano dal politicamente corretto dei ragazzi di adesso. Bravi ma spontaneità ridotta al minimo. Marco era un’altra cosa. Ricordatelo così: irriverente a Imola, sul podio nella sua unica apparizione in Superbike ai danni di Max Biaggi e sul podio a Phillip Island, con i capelli al vento e la faccia di chi ha capito come si fa a vincere nella top class. Il tempo di prendere un aereo, di fare prove e qualifiche a Sepang, e non c’era più.
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