A volte l’abito fa il monaco. Date uno sguardo ai grandi signori della Formula 1 dell’età d’oro e poi confrontateli con i bimbetti di oggi, vestiti come Pinocchio
Articolo di Marco Masetti
Di questa strana estate 2020 rimangono immagini che consegniamo agli storici e a chi avrà voglia di ragionarci sopra. Insomma a chi vorrà fare quello che, come spesso accade, chi sta vivendo quel momento evita di fare. Sono le facce che colpiscono, quelle preoccupate e coperte dalle mascherine delle quali potremo intuire qualcosa solo dal linguaggio del corpo e dagli occhi e quelle di chi non si preoccupa e che se ne frega. Si coglie un che di “dionisiaco de noantri” che fa scambiare un apericena (che un pool di divinità assortite fulmini il creatore dell’orrido neologismo) con la libertà. Passiamo oltre, è molto meglio…
Due immagini vengono in mente, due scatti fatti a una coppia di piloti separati da mezzo secolo di evoluzione del costume e della società.
La prima ritrae Graham Hill e Jack Brabham, due titani della Formula 1 eroica, quella dei “400 cavalli nella schiena”. Siamo nel 1970 e i due sono al funerale di Jochen Rindt, unico campione del mondo postumo della storia della F1, morto a Monza. Graham e Jack sono due adulti, vestiti come lo erano allora persone di quarant’anni, seppure sportivi in attività. Giacche ben tagliate, tessuti inglesi, uno stile e una sobrietà lontani anni luce dalla cafoneria attuale. Era un mondo in cui viveva gente molto diversa rispetto a quella di oggi. Nel bene e nel male, ho le mie idee, ma me le tengo ben strette.
Lo scenario della seconda foto è un non luogo per eccellenza: un’area vicino ad un paddock, lo spiazzo aziendale, un’area parcheggio di un aeroporto. Ci sono due ragazzi che, come suggerisce la didascalia, stanno partendo. Si tratta di due piloti italiani della Moto3, giovani naturalmente, vestiti come si usa adesso nel paddock, ovvero: maglietta, pantaloni corti al limite dell’inguardabile pinocchietto, sneaker ai piedi, cappelluccio in testa. In pratica un abbigliamento pinocchiesco che sta all’eleganza come il sottoscritto alla danza classica. Il tutto popolato da loghi di sponsor in ogni dove. Un abbigliamento “corporate”, accettato acriticamente come una divisa. E, a questo proposito, vi racconto di come l’abbigliamento del pilota sia una delle cose maggiormente codificate nei contratti. Ogni occasione prevede un dress code ben preciso: viaggi, tempo libero, giovedì di interviste, cappellino in testa, borraccia, occhiali, orologi da polso, persino mascherine anti Covid-19 con i loghi di team e costruttore.
Bene, facciamo un altro salto indietro e, sempre dalla F1, andiamo a pescare il matrimonio commerciale tra Niki Lauda e Parmalat. Un cappellino perennemente in testa a coprire i danni del rogo del Nurburgring con il logo. Lauda lo aveva sempre in testa, accoppiandolo anche ad abbigliamento formale o da cerimonia. Quello che oggi fa un altro sportivo molto elegante, Johnny Rea, elegante anche con il cappellino con il graffio Monster in testa.
Torniamo ora ai pinocchietti che nella foto trascinano due trolley ovviamente sponsorizzati e brandizzati. Non graffiano, non fanno e non hanno stile (mentre in pista ne hanno eccome), sembrano solo due scolaretti che vanno a lezione. Potrebbero ssono sembrare modelli da imitare solo a dei preadolescenti. Quindi bocciati, non tanto loro, ma chi cura il marketing del team che purtroppo non fa che adeguarsi alla terribile ineleganza del paddock, quella fatta di felpe e magliette che stingono e perdono colore, di giubbotti di materiale sintetico che esalta l’ascella poco amica della triade acqua, sapone e deodorante. La nostalgia per gente come Brabham e Hill è fortissima, ma si fa strada persino un ricordo piacevole di come si veste Andrea Iannone che non sarà interprete di un’eleganza raffinata, ma che almeno ha il pregio di vestirsi come un uomo di trent’anni e non come tanti bambini di Collodi.
1970: Graham Hill e Jack Brabham al funerale di Jochen Rindt