Nessuno (o quasi) conosce i loro volti; eppure i Daft Punk hanno sdoganato la dance elettronica nei confronti del pubblico rock. Ecco la loro storia
I Daft Punk sono rock? Be’, il nome di sicuro: lo devono alla prima recensione che NME scrisse su di loro, quando ancora si chiamavano Darlin’: «a daft punky trash» (un gruppetto di stupidi teppisti).
Il duo francese viene fuori da quel decennio musicalmente un po’ sottovalutato, gli anni 90. In realtà è stato l’ultimo in cui sono nati dei movimenti musicali, nel vero senso della parola. Non per niente, le band sopravvissute a quel periodo sono quelle che ancora riempiono gli stadi oggi.
I favolosi anni Novanta
Erano anni di mescolanza, misticanza, crossover, mashup. Dal grunge, ovvero il metal che incontra l’indie (Nirvana e Pearl Jam, certo, ma anche Mudhoney, Alice in Chains, Soundgarden): al metal/rap, la musica bianca rock che copula con l’hip hop nero (da Aerosmith+Run Dmc ai Red Hot Chili Peppers, dai Rage Against the Machine ai Living Color ai Jane’s Addiction); al britpop, con le sonorità che ripescavano la swinging London minore (Charlatans, Happy Mondays, Blur, Oasis).
C’era il trip hop, il soul rallentato dal dub (Massive Attack, Tricky, Portishead), al drum’n’bass jungle che invece accelerava le basi reggae (Roni Size, Goldie, Adam F) e si scaldava con suoni indiani (Talvin Singh, Nitin Sawhney); e c’era l’elettronica che recuperava l’attitudine, la rabbia e il look del rock punk (basti pensare ai video dei Prodigy o dei Chemical Brothers).
Senza considerare le realtà locali, come in Italia, dove la cultura alternativa del dissenso partoriva il movimento hip hop, reggae e dub; nomi come Frankie Hi Nrg, Comitato, Africa Unite, Casino Royale, 99posse, Almamegretta, Sud Sound System, fino poi ai Subsonica, figli del mashup rock&dance. Ma poi: Fat Boy Slim è rock? E i Chemical Brothers? E Moby?
A sinistra, Lucas indossa giacca Tatras, pantaloni Dries Van Noten e stivali Moschino. A destra, Dylan, indossa giacca in pelle Minoronzoni 1953.
Spazio all’elettronica
Daft Punk, Fat Boy Slim, Prodigy, Chemical Brothers, Moby, Underworld, Groove Armada hanno sdoganato la dance elettronica nei confronti del pubblico rock. Nei club indie potevi tranquillamente far girare sui piatti, in sequenza, RATM, Green Day, Blur, Prodigy, Bjork e Daft Punk, e a nessun purista di genere sarebbe saltato in mente di mollare la dance hall. Anzi: era divertente vedere anche i metallari slogarsi i fianchi con i pezzi electro-funkettoni.
Che poi, come sempre nella musica pop, nessuno è mai il primo a inventare qualcosa (a parte i Beatles, ovviamente). A proposito di techno, per fare qualche nome nobile, i Kraftwerk hanno sempre frequentato da invitati d’onore la scena del rock. Lo stesso vale per nomi meno conosciuti ma molto apprezzati della scena indie elettronica. Band come Front 242 o i fiorentini Neon si ballavano nei locali degli anni 80, insieme ai Cure o agli Smiths.
E poi i Depeche Mode o New Order: I just can get enough e Blue Monday sono decisamente pezzi dance; ma sfido chiunque a dire che queste non sono due band considerate piatti forti del pentolone ardente del rock. Certo, se poi hai la fortuna di avere un regista come Michel Gondry che ti fa i video…
Questione di immagine
In Around the world è riuscito a sottolineare la perfezione ipnotica, la ripetizione ritmica sempre leggermente sfalsata dall’inserimento, ogni volta, di un nuovo elemento visuale, che prendeva la scena.
Ecco: il groove martellante di quella canzone che non smetteresti mai di ballare; quell’unica frase ripetuta all’infinito con l’autotune, 7 minuti di divertimento puro. E poi Spike Jonze, altro super regista: il cagnolone con la stampella del video di Da Funk è strepitoso. L’immagine per loro è fondamentale: l’hanno sempre curata, in maniera maniacale. Gli abiti (glieli disegna Hedi Slimane), i caschi, le cover degli album, i video. I loro veri volti sono praticamente sconosciuti.
I Daft Punk hanno sapientemente razzolato nel repertorio sonoro cibernetico dei Kraftwerk da una parte, e nel semi-trash con le paillettes della disco anni 70 all’altra. La loro rappresentazione scenica ne è lo specchio iconografico, con i caschi da robot e le tutine sgargianti.
A proposito del funk, il padre di Thomas Bangalter (l’altro Daft Punk è Guy-Manuel de Homem-Christo) ha scritto uno standard dei seventies come Cuba dei Gibson Brothers insieme ad Air, Etienne de Crecy, Laurent Garnier, St Germain e poi Cassius, Phoenix Justice, hanno sfiorato il mondo con il loro magico French touch, ringalluzzendo la scena musicale d’oltralpe che languiva da decenni.
I Daft Punk oggi
Negli ultimi anni il duo francese si è ammorbidito, con l’età succede. I Daft Punk hanno via via abbandonato le sonorità più spigolose della techno per scivolare sinuosi verso i suoni più ruffiani del funky soul molto seventies.
Questo non cambia la percezione del pubblico nei loro confronti. Quando devo rimettere a posto i miei 6mila cd negli scaffali, scatenando l’ira funesta di mia moglie ma seguendo a puntino le modalità scolpite nella pietra da Nick Hornby, i Daft Punk tendo a catalogarli tra Cure e Devo, più che tra Cypress Hill e DelaSoul. Lo so, è solo (forse) rock’n’roll, ma a me piace.
Articolo di Umberto Luciani
- Assistente fotografo: Oscar Masi.
- Hair: Ezio Diaferia @ Close Up Milano.
- Make-Up: Kassandra Frua De Angeli.
- Models: Lucas Dambros @ I Love Models Mgmt. e Dylan Bell @ Elite Milano.
- Ha collaborato: Diletta Rossi.
- Special thanks to Officine Mermaid.