Si sono fatti notare a X Factor 2016 con una clamorosa autoeliminazione a un passo dalla finale. I Daiana Lou sono un duo italiano nato dall’unione e dall’amore di due musicisti, Daiana Mingarelli e Luca Pignalberi che, grazie a una scelta rischiosa ma più giusta e personale, sono riusciti a sfondare. Una decisione che rispecchia il motto di Jameson, Sine Metu, che significa senza paura. Continua il nostro viaggio alla ricerca dei personaggi che condividono gli stessi valori del whiskey irlandese. Il loro sound rappresenta l’anello di congiunzione tra la street music e l’elettronica dei club berlinesi, le due realtà dove hanno trovato la propria dimensione artistica e umana.
Il vostro successo deriva, anche, da delle scelte coraggiose. Invece di una strada prevedibile ne avete intrapresa un’altra, più rischiosa ma anche più giusta a livello personale e l’avete dimostrato soprattutto a X Factor.
«Abbiamo portato avanti quello che ci piace fare senza compromessi».
Come vi siete conosciuti, che esperienze artistiche e influenze musicali avete a livello individuale?
Daiana: «Luca nasce come chitarrista blues e ha suonato per anni con una band che faceva delle sonorità rhytm & blues e soul. Io, invece, ho iniziato a 16 anni con un’esperienza live assieme a una band reggae interpretando canzoni scritte da me. Tuttavia, se per Luca quello del musicista era già un lavoro ben definito, io ho capito solo più avanti che questo era proprio quello che volevo fare. Finché una sera del 2013 – andando a fare una jam session in cui era previsto uno scambio di musicisti sul palco – insieme a me è salito un altro chitarrista che non conoscevo, ed era Luca. Da quella sera non siamo più scesi dal palco».
Avete messo insieme le vostre caratteristiche?
«Sì, abbiamo provato ad avere una band, ma eravamo i soli a prendere la faccenda sul serio e questo ci ha spinto a diventare un duo. Ma una cosa con chitarra e voce sarebbe stata troppo scontata, per cui a Luca è venuta l’idea di suonare con i piedi cassa e charleston della batteria in contemporanea con la chitarra, mentre io inizialmente suonavo qualche percussione, ma mi concentravo più sul cantato. La svolta è stata andare a vivere a Berlino. Abbiamo iniziato a inserire degli elementi elettronici nel live con dei synth e io ora suono l’altra metà della batteria, quindi timpano e rullante. La cosa particolare di questo duo, grazie all’influenza berlinese, è che condividiamo la batteria».
Come mai avete scelto di trasferirvi a Berlino?
«Ci siamo trasferiti lì dopo che Luca c’è stato per qualche giorno ed è tornato entusiasta. La differenza con l’Italia è nella libertà con cui si può fare musica. Il musicista non è visto come uno che sta scherzando. In Italia ci è capitato di sentirci dire: “Ma ci arrivate a fine mese?” invece a Berlino c’è rispetto nei confronti di questo mestiere, esistono delle leggi che tutelano i musicisti. Ci auguriamo che un domani l’Italia possa diventare così: un luogo dove un musicista può sentirsi di fare il musicista come se stesse facendo qualsiasi altro tipo di mestiere».
In che modo vi ha deluso il talent?
«Quando sei lì dentro pensi che gli autori o l’etichetta siano veramente interessati a te come artista, ma ti rendi conto che, quando finisce la tua edizione, questa è servita soltanto a ricaricare il montepremi per l’anno successivo. In questo modo, però, si abbassa il livello degli ascoltatori che comprano musica. È un danno molto grande a un mercato che ne sta risentendo già da molti anni e così facendo si finisce per distruggerlo».
Qual è stata la difficoltà più grande nel vostro percorso? Avete mai pensato di mollare?
«Mai. Lasciare X Factor nonostante fossimo tra i favoriti è stata una decisione difficilissima che ci ha destabilizzato all’inizio. Eravamo consapevoli che non sarebbe stato facile, ma poi si è rivelata la scelta giusta per come siamo fatti noi. Un altro momento delicato è stato quando abbiamo lasciato le certezze dell’Italia. Avevamo voglia di confrontarci con i pesci grandi che ci piacciono tanto, con le band che ci hanno ispirato del panorama inglese, come ad esempio i Black Keys, la cantautrice belga Selah Sue e il mondo alternative pop. Siamo andati lì per vedere che opportunità potevamo avere nel mercato europeo e, in un mese, abbiamo preso molti contatti soltanto suonando dal vivo e questa è una cosa molto bella che si percepisce in un Paese meritocratico dove, se ti impegni, ti torna indietro qualcosa».
A Berlino avete trovato anche una serenità personale…
«Sì, Berlino ci ha insegnato a cercare di stare bene con noi stessi e con la nostra dimensione artistica. Qui, quando facciamo musica, vediamo che si crea aggregazione tra le persone, che vivono la musica da protagoniste. Tu non sei artefice solo del tuo destino: molte volte sei artefice del destino di chi ti ascolta e questo ti fa sentire una grande responsabilità. È un continuo confronto con se stessi, ci si mette a nudo e ci si sente a proprio agio».
Siete impegnati in qualche tour attualmente?
«Sì, stiamo suonando in varie città italiane e l’ultima data del tour si terrà a Milano il 17 marzo, al Jameson Village. Inoltre il prossimo 12 maggio suoneremo in uno dei club più grandi di Berlino, lo Yaam, un locale che si concentra principalmente sulla musica reggae e che sta organizzando un evento proprio attorno al nostro live perché i gestori, dopo averci sentito suonare a Berlino, sono rimasti molto colpiti dalla nostra musica, che ha anche delle influenze reggae».