È senza ombra di dubbio il reporter di guerra più in gamba, sadico, folle, avventuroso e affascinante del nostro tempo. Ha pubblicato prima un’autobiografia e poi il fumetto sull’incidente in Siria intitolato “Non si muore di lunedì” edito da Signs Publishing (96 pagine, 20 euro), disegnato dall’amica e fumettista Elena Cesana.
DI FABIO FAGNANI
Gabriele Micalizzi è sempre di più di come te lo immagini. Più coraggioso, più impavido, più stronzo, più bravo, più simpatico. Più tutto. Ed è grazie anche a questa sua capacità di essere sempre qualcosa in più che riesce ogni volta a stupire. Stupisce la sua vita, il suo lavoro, la sua dedizione, la sua passione incontrollabile. Gabriele Micalizzi non sta solo facendo la storia del lavoro di reporter di guerra, ma sta letteralmente fermando momenti di storia attraverso i suoi scatti. Ho fatto due chiacchiere con lui per parlare del fumetto e della sua vita.
Da dove nasce l’idea, o forse meglio dire l’esigenza, di fare questo fumetto?
«Nasce da una casualità. Nel senso che io stavo facendo un talk dopo l’incidente in Siria e l’editore, che aveva già pubblicato i fumetti sulla storia di Micalessin e Fausto Biloslavo, mi ha chiesto se ero interessato a farlo anche io. Da lì è nato tutto».
Cosa pensi possa piacere ai lettori?
«Credo che la grossa differenza rispetto ad altri fumetti la faccia il mio lavoro. Nel senso che io non sono un giornalista, ma un fotografo e anche nel fumetto c’è molto più spazio all’immagine rispetto alle parole. Ho voluto fortemente essere poco didascalico e ho preferito essere molto più diretto, credo sia questa una delle cose interessanti»
E poi ci sono i QR Code…
«Esatto. All’interno del fumetto ci sono dei punti nei quali abbiamo inserito questi codici che al loro interno ti permettono di vedere una foto, un video oppure degli oggetti, dei cimeli che ho conservato da un viaggio. Rende tutto più interattivo. Fornire dei contenuti multimediali extra secondo me è una figata perché ti immerge ancora di più nella storia del fumetto»
E il titolo?
«Mi rappresenta perfettamente. Il titolo è l’essenza del mio linguaggio. Ironico, ma diretto e tagliente. E quel giorno era un lunedì, che già è un giorno di merda e poi quando ero lì per terra ferito stavo aspettando di morire e non morivo e mi dicevo ma che palle, che noia, ma quando arriva? E quindi è venuto abbastanza automatico il titolo, che fa parte del mio modo di affrontare la vita e soprattutto questo lavoro che secondo me è l’unico modo possibile per conviverci»
Una delle cose interessanti è che ci sono le tue foto.
«Sì, ho voluto fortemente che ci fossero perché i lettori potevano confrontare le foto con il disegno di Elena Cesana e inoltre potevano vedere la realtà di quei luoghi, di quei momenti. Alla fine la fotografia è potentissima per questo motivo, devi essere lì per raccontare con un’immagine gli scontri, la morte, le guerre. Con la parola, se sei bravo, puoi stare anche un po’ più lontano dall’epicentro. Una foto vale più di mille parole, è verissimo ed è la mia forza»
Una volta mi hai detto: “faccio questo lavoro perché voglio fare la storia”.
«Un po’ è sicuramente questo. Io amo poter dire di aver fotografato la storia, averla raccontata nel modo che mi viene meglio. Poi, certo, io sono uno spericolato e voglio vivere così. Voglio vivere, entrare nelle situazioni più pericolose, quelle più affascinanti e insidiose. Volevo vedere, conoscere, viaggiare, per provare a colmare la mia continua fame di curiosità»
Quali sono i luoghi dove vorresti andare prossimamente?
«Mi piacerebbe andare in Sud America, non ho mai avuto ancora questa possibilità . E poi anche in Asia. Su tutti i paesi direi Cina e Hong-Kong. Sarei voluto andare durante gli scontri, sarebbe stato fighissimo. Mentre, recentemente, sarei voluto andare in Bielorussia per quello che è successo dopo i brogli elettorali. Probabilmente sarei finito in carcere».
Il mondo è pieno di posti pericolosi, pieno di guerre, di crisi sociali. Non hai la sensazione di perderti dei pezzi?
«Sempre. Hai la sensazione di non poter controllare nulla e di essere completamente fuori posto, sempre, sempre, sempre. Magari sei in una zona che pensi possa essere giusta e invece dovevi essere dall’altra parte della città o del paese. Ti senti impotente, perché la storia semplicemente accade, non aspetta nessuno»
Prima di tornare sul confine hai fatto un percorso psicologico? Come hai fatto a tornare dopo quello che ti è successo?
«Quando sono tornato al fronte dopo l’incidente è stata dura. Volevo riprendere con calma, ma quando sei in mezzo a proiettili, bombe, sangue, morte ed esplosioni non c’è un cazzo da stare calmi. Questo lavoro o lo fai o non lo fai. Per ora, per quello che mi hanno detto gli psicologi, non ho alcun tipo di stress post traumatico o cose di questo genere, ma questa vita è talmente lontana dalle persone normali che anche chi vuole darmi una mano fa fatica a mettersi i miei panni. Credo sia un po’ come quando cadi in moto. Se non risali subito rischi di non risalirci più, ma tu sai che ci vuoi andare in moto. Poi certo, in quelle situazioni lì, quando rischi la vita, ti caghi sempre addosso».