Una foto del Divin Codino alle prese con la sua 4×4 ha scatenato i commenti in rete, ma la longevità dell’icona torinese non stupisce e ha una ragione precisa
Articolo di Riccardo Casarini
La Panda. Ah, la Panda. Le si vuole un gran bene anche se non è poi così bella. Non è quella che incrociata per strada ti fa ruotare la testa come un invertebrato, però va be’, ha tante altre qualità. Tipo i fari LED che rischiarano a gior…NO! Tipo il clima bizo…NAH! Tipo il sistema di entertainment dolby surr…ahahah! Macché, solo l’essenziale: meccanica base, lamierati tagliati con il righello, interni recuperati da uno stabilimento balneare di Gatteo Mare (ricordate la Panda 30, no?!). Essenzialmente, una macchina povera, anche se oggi si usa dire spartana come fosse plausibile immaginare l’esercito di Sparta andare alla battaglia di Maratona con la Panda Young, elmi e spade nel baule. È però la versione 4×4 quella che ad oggi resta la più apprezzata e in un certo senso ricercata, tra i vari modelli del cubotto torinese disegnato dall’Italdesign di Giorgetto Giugiaro. Sono passati quasi quarant’anni, ma in qualche modo la Panda 4×4 sgomita sempre nei listini degli usati. Per un semplice motivo, un optional non disponibile per la moltitudine dei veicoli che versatili lo sono soltanto nel nome e nelle pubblicità: fa il suo dovere in modo impeccabile, essenzialmente il suo dovere, purché non le si chieda altro.
Ma quale crossover, crossover un ca**o
Il crossover è tanta roba, se stiamo parlando del sound rabbioso dei Rage against the machine, un po’ meno quando si tratta del segmento auto che ha preso piede con gli anni Duemila. Le vetture crossover in genere, così come i SUV strettamente imparentati, hanno origine nell’idea di poter coniugare le caratteristiche di segmenti fino a pochi anni fa ben distinti tra loro: la capacità di carico di una station wagon, la trazione integrale e l’altezza di una tuttoterreno, la grinta di una coupé. Ma è davvero così semplice? Fosse vero, per cucinare un piatto perfetto potremmo iniziare col mischiare fresco ragù e gelato artigianale. Per correre un mezzofondo potremmo calzare una comoda babbuccia e un’ergonomica scarpa tecnica. Ecco, ci sono cose che funzionano bene proprio perché sono pensate in modo specifico e altre che, diventate un ibrido, fanno emergere più limiti che vantaggi, scadendo in una tiepida mediocrità d’utilizzo. Una station wagon ha nella maggior parte dei casi più spazio di carico e abitabilità, un fuoristrada con tassello e riduttore è più efficace in condizioni difficili, una coupé è più sportiva, fluente e ha un baricentro vicino al suolo, una utilitaria compatta non si batte in parcheggio. Presto spiegato perché, pur nella sua goffaggine, la Panda 4×4 rappresenta un simbolo di (scomoda) praticità. Come si usa dire: «Fa il suo».
Longeva e inossidabile (si fa per dire)
Occhio, qui nessuno sminuisce i progressi fatti in quanto a comfort e sicurezza. Oggi possiamo viaggiare più a lungo, più lontano e più sicuri, e per andare da Milano a Napoli, per dire, non serve lo spirito di Marco Polo. Certo che l’attenzione al ruolo primario (qualunque sia a seconda dei casi) che le auto sono chiamate ad assolvere si è un po’ perso di vista. Se oggi avessimo bisogno di un mezzo capace di portarci in fondo a ogni strada, senza ricorrere a motoslitte canadesi o cingolati da guerriglia e senza creare buchi spaziotemporali nel portafogli… la scelta cadrebbe ancora lì, sulla Panda! Ché, al contrario di ogni SUV gommato venti pollici, la Panda 4×4 coi suoi cerchi in latta si arrampica praticamente ovunque, mentre per aggiustarla o fare rattoppi d’emergenza non serve avere un’esperienza ventennale nella Silicon Valley. Serve altro? E poi, la soddisfazione di poter scalare senza paura dove invece pesanti salotti su ruote non possono arrivare, con gomme ricoperte da cinquemila lire e i battitacco rosicchiati da un’amichevole ruggine? Per quantificare questo servono i numeri periodici.