Moreno Pisto torna a Riders da direttore e si presenta così:
«Ebbene sì. Torno a Riders da direttore. Torno a casa insomma. E lo farò con lo spirito di questa lettera luuunghissima che ho scritto ai ragazzi dell’Accademia di Comunicazione a cui ho tenuto un corso di Scrittura giornalistica, poi diventata l’editoriale del numero di Urban uscito a febbraio. La lettera ha un titolo che è una dichiarazione di intenti anche per quello che sarà il nuovo Riders. Questo: Portate Tempesta, Cercate la Pace.
La pubblico integrale qui, con il selfone di fine corso e l’invito alla festa di martedì, dove farò i ringraziamenti e dove annunceremo un po’ di cose. Se passate di là, ci sarà un sacco di bella gente. Viva viva viva Riders! Ecco la lettera:
PORTATE TEMPESTA, CERCATE LA PACE
La prima volta che sono entrato in una redazione me la ricordo appena. Il caporedattore del Tirreno di Montecatini allora era un tale Corrado Benzio. Sicuramente avrà fatto una di quelle facce che gli avrei visto fare praticamente ogni giorno, quasi di noia, di uno che ne aveva già viste tante e che aveva capito che nella vita bisogna prendersi davvero poco sul serio, soprattutto se si è giornalisti e bisogna confrontarsi da una parte con concetti giganteschi come la verità, la libertà di stampa, il diritto di cronaca e dall’altra con i tempi delle chiusure prima di mandare il giornale in tipografia, le richieste dei cagacazzo (collaboratori, politici, vittime e altre amene persone) e la vita propria, quella fatta di quotidianità. Mi ricordo però che a Benzio gli avevo portato degli scritti per fargli capire come scrivevo, se andavo bene insomma. Avevo una tastiera arancione, di una bruttezza rara, solo guardarla metteva repulsione, figuriamoci scriverci. Erano dei racconti, forse, oppure l’inizio di un libro. Li stampai su fogli A4 mettendoci ore, lui li guardò con quell’espressione lì e li posò da una parte sulla scrivania, poi guardò me e mi disse: ok, se vuoi cominciamo subito. Ma come, mi chiesi, questo non legge manco i miei scritti e mi dice già se vuoi cominciamo subito? La risposta a questa domanda l’ho capita molto tempo dopo. Se uno vuole scrivere non è che va bene o va male a prescindere. Se uno vuole scrivere deve scrivere, niente trucchi niente scorciatoie. Non sei bravo? Ti eserciti e lo diventi. Stessa cosa se vuoi fare il giornalista o qualsiasi altro mestiere. Non lo sai fare? Buttati, il resto – se la cosa che vuoi fare è quella che stai facendo – verrà fuori. Ci vorranno talento passione costanza perseveranza ma verrà fuori.
Qualche giorno dopo Benzio mi diede un’altra lezione che ho interiorizzato sempre molto tempo dopo. Mi incrociò nel corridoio della redazione e mi disse: ah ho letto i tuoi scritti, anonimi, normali, niente di che. Non feci domande, me ne vergognavo troppo, mi aveva cassato, punto. Però quello che mi disse è di una verità assoluta ed è la prima cosa che vi ho detto entrando in questa aula che si chiama Pesci Scorpione (capite l’assurdità, questa aula si chiama Pesci Scorpione, se ci penso mi viene da ridere): dovete trovare la propria voce, la vostra unica unicissima voce, e saperla tirare fuori. Prima di consegnare quegli scritti a Benzio avevo passato gli ultimi giorni a limarli, riscriverli, non mi piacevano più, mi sembravano troppo strani e allora li normalizzai, li omologai a qualcosa che avrebbe potuto scrivere chiunque, e non solo e soltanto io.
Capite? Io l’ho capito tempo dopo. La propria voce. I propri errori, le proprie paure inquietudini ossessioni le proprie scopate serate in gruppo, i propri pianti e la ricerca di carezze. Tutto. Tutto questo deve venir fuori in ciò che fate. Questa è l’unica cosa in cui non dovete fallire. Ve lo dice uno che adora fallire.
Non siate anonimi. Non siate normali. Non siate niente di che.
E se non vi sentite pronti non vi preoccupate, nessuno lo è mai stato prima di fare qualcosa di grande. Ogni cosa che fate probabilmente è un errore, quindi fatela con stile per distrarre dalla probabile merda.
E se qualcuno vi propone qualcosa che non avete fatto la risposta giusta non è essere sinceri e dire: io questa cosa non l’ho mai fatta. No, la risposta corretta è: tutto quello che ho fatto nella mia vita, prima non lo avevo mai fatto.
Vi voglio raccontare una storia. Il protagonista di questa storia è un uomo di cui io prima o poi vorrei tatuarmi il volto sullo stinco destro; il suo nome è Ernest Henry Shackleton, un irlandese. Ernest era figlio di un medico e il padre naturalmente lo immaginava un dottore come lui. Ernest invece si fissò che voleva attraversare via terra il Polo Sud da est a ovest, impresa mai tentata prima. Questo fu l’annuncio che i più importanti giornali inglesi del 1914 pubblicarono: “Cercasi equipaggio per viaggio pericoloso, paga misera, freddo intenso, lunghi mesi di oscurità totale e ritorno non garantito, ma in caso di successo: onore e gloria”. Risposero in 27 e il primo agosto la nave Endurance partì con 28 membri e 69 cani da slitta. Il viaggio fu durissimo. A più di cinque mesi la nave toccò la terraferma nel mare di Weddel, lì venne allestito il campo base da cui far partire la spedizione ma le cose si misero male. La nave fu portata alla deriva. Non bisognava più pensare alla missione ma alla sopravvivenza, perché l’imbarcazione fu distrutta dal ghiaccio. I 28 erano dispersi nel gelo e a migliaia di chilometri di distanza dai più vicini insediamenti. Ad aprile del 1916, quasi due anni dopo la partenza, Shackleton diede l’ordine di abbandonare la banchina di ghiaccio e di mettersi in mare con le scialuppe ma prima fu necessario compiere un gesto drammatico: sopprimere tutti i cani perché c’era posto a malapena per gli uomini. Dopo 15 giorni in mare le scialuppe raggiunsero Elephant Isle. Lì le aspettative di sopravvivenza era nulle sul lungo periodo. Così Shackleton capì che l’unica possibilità era partire con una sola scialuppa in sei e raggiungere la Georgia del Sud promettendo agli altri che se fosse sopravvissuto sarebbe tornato a prenderli. Nella scialuppa c’era solo una piccola protezione che però bastò a coprire dal freddo per 16 giorni. Ma quando arrivarono i 6 si accorsero di essersi fermati dalla parte opposta del villaggio e dovettero legarsi con una corda per evitare di disperdersi nelle tempeste. Non potevano mai fermarsi perché fermarsi equivaleva a morire, e dopo tre giorni di cammino raggiunsero il villaggio. Li Shackleton cominciò a cercare un modo per tornare indietro a prendere gli altri e dopo tre tentativi trovò un vecchio rimorchiatore del governo cileno, al quale promise che per recuperare i suoi membri dell’equipaggio non sarebbe passato dai ghiacciai altrimenti lo scafo si sarebbe rotto. Naturalmente era una cazzata. C’era di mezzo la vita di chi si era fidato di lui. Raggiunse Elephant Isle tre mesi dopo. I suoi uomini erano ancora tutti lì: si erano salvati mangiando carne di pinguino e utilizzando le scialuppe rovesciate come riparo. Li aveva tenuti in vita la certezza che quell’uomo avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per ritornare e portarli in salvo.
Shackleton aveva fallito nella missione. Tutti avevano fallito. Ma in gioco c’era molto di più. E per quel molto di più non aveva fallito nessuno.
Dite di sì, ditelo tante volte.
La prima lezione vi ho dato due pezzi. Uno raccontava del giocatore Suarez e spiegava come mai mordeva i suoi avversari, ossia per la paura di perdere tutto ciò che si era guadagnato fino ad allora. Ecco, comportatevi sempre così. Ogni cosa che fate fatela pensando che se non la fate bene tutto ciò che avete fatto fino a quel momento non varrà più niente. Questa cosa qui si può tradurre con una sola parola: fame.
Abbiate fame. Sempre.
Se non avete fame per una cosa non fatela, scegliete un’ossessione e coltivatela. Se una cosa non vi ossessiona trovate la vostra ossessione.
Se proprio non sapete dove andare a farvi i capelli andate da Francesco Cirignotta, in via D’Annunzio a Milano. È un filosofo più che un barbiere, lui si definisce tricoesteta, giusto per marcare la differenza dalla concorrenza dei barber shop, è sempre vestito in tre pezzi e a me chiunque sia vestito in tre pezzi mi ricorda Burroughs e quindi mi piace. Una volta andai da Cirignotta in preda a una depressione totale, senza spiegargli niente gli chiesi:
– France’, come posso sapere quello che devo fare?
Guardando lo specchio mi ha detto:
– Scegli ciò che non vuoi
– Scusa, in che senso?
– Io non ho avuto l’acqua, la luce, il cibo quando vivevo in Sicilia e mi sono promesso che avrei fatto di tutto per non ritrovarmi in quella condizione, mai più; ho scelto ciò che non volevo e da lì sono partito; intendo che se hai presente ciò che non vuoi vivere, quello che succede dopo appartiene al regno delle opportunità.
La chiama teoria dell’imbuto rovesciato. Prendi un imbuto, rovescialo, il collo è formato da tutto ciò che non vuoi, il vaso sono tutte le possibilità che ti aspettano
– Non puoi saperlo ora cosa ti aspetta, ora puoi sapere solo ciò che non vuoi ed evitare che ciò avvenga.
Questo mi ha detto.
All’inizio di questa lettera ho detto: non sei bravo a scrivere? Ti applichi e lo diventi. Ma voi non dovete fermarvi li. Non dovete essere solo bravi. Dovete sconvolgere.
Walt Whitman diceva: io mi contraddico, contengo moltitudini
Non abbiate paura dell’incoerenza. Contraddicetevi. Anche a distanza di secondi, attimi, minuti. Fanculo ai binari unici. Contenete moltitudini. E adesso andate a fanculo anche voi.
Ricordate: portate tempesta, cercate la pace».